Il viaggio di un padre ed un figlio nell'alto Atlante, fino alle porte del Sahara.
Testo e foto di Manuel Minola Violino
Come nascono i sogni?
Racconti, letture, incontri, viaggi con la fantasia, non so rispondere a questo quesito, so che a un certo punto scatta qualcosa nella nostra testa, come quando hai un’idea, un’intuizione, si insinua nella nostra mente e cresce, ci fa sognare, e il più delle volte resta li stretto nella morsa delle nostre paure, incapaci di osare.
Poi un giorno, accade che quei due binari che viaggiano paralleli, che hai a fianco e metti a fuoco bene ma senza la possibilità di renderlo tangibile, si avvicina, sempre di più e più si avvicina più tutto diventa sempre più limpido, ti butti e trovi il coraggio di affrontare l’ignoto, così di petto, come un sussulto. Il mio, l’Africa, il deserto del Marocco, quello arido, fatto di dura terra e canyon, le dune del Sahara, e Marrakech che avrei voluto visitare da tanto tempo…
Mio figlio Matteo, il maggiore, classe ’91, “rider” a Londra da tanti anni, lo scorso anno ha partecipato alla sua prima “gara” il giro dell’Olanda, duemiladuecento chilometri in bikepacking, FINISHER! Per lui è stato un colpo di fulmine, un’illuminazionei preso dall’onda emotiva ha iniziato a guardare al calendario degli eventi che da li in poi si susseguono, Trans Atlas Mountain! “Pà, questa mi prende tantissimo” mi dice in una delle tante video chiamate su WahtsApp.
Mi blocco e in un nano secondo faccio 2+2, nemmeno il tempo di… Teo! Se facessimo un viaggio in Marocco io e te in bikepaking?
Io, Manuel, classe ’72, si lo so, mi sono dato da fare presto :-), ma ora che sono diversamente giovane e in forma, mi godo il momento ;-). Mi sono approcciato alla mountain bike nel ’96, ho fatto tante gare e qualche follia, un paio di decine di 24h in solitaria, la Hero, la DSB, qualche randonné sui duecento chilometri, e nel 2016 mi sono avvicinato al trail running, la gara più lunga affrontata fino ad ora la UTLO da centoventi chilometri, poi altri eventi che non sto qui a raccontare, al TOR non mi vogliono, sono due anni che mi scartano, quest’anno poco male visto il dramma Covid19 che stiamo vivendo.
In tutti questi anni, non essendo un agonista puro, mi ha sempre affascinato andare alla scoperta del mio territorio, una sorta di consapevolezza geografica fatta di mappe, strumenti per tracciare in GPS (non ho mai avuto un navigatore GPS e non ce l’ho tuttora, tengo a precisare), con questi strumenti ho iniziato a scoprire il mio territorio, mettendo tracce su tracce, spostandomi dal basso monferrato ai navigli delle nostre risaie vercellese, il biellese e poi tutta la valsesia. Mi viene naturale, memorizzo e raramente sbaglio, mi appassiona e mi stimola.
Quindi, detto, fatto!
Acquisto subito una cartina Michelin del Marocco, pare dalle recensioni e dai suggerimenti che al momento sia la migliore, anche se non aggiornata come rete stradale nella quale il paese sta facendo grandi investimenti. Aeroporto, Marrakesch, si parte da li, non c’è storia! Poi voglio attraversare l’Alto Atlante e voglio vedere i deserti, le dune, da qui non si scappa. Inizio a guardare le strade e ad abbozzare qualche idea, verso sud , verso l’Algeria e poi? Si torna sulla stessa via, no, monotono, via verso Est e scopro le dune di Erg Chebbi, WOW! Centro!
Ne parlo con Matteo e lui ne è subito entusiasta, però storce il naso perché c’è tanto asfalto, ma in undici giorni (con due di viaggio) coprire quelle distanze completamente off road significa sfondarsi e rischiare di non godersi il viaggio, di avere pochi contatti con gli indigeni e le loro culture… Vabbè, iniziamo ad abbozzare una rotta e poi i dettagli li sistemiamo dopo, quindi faccio un anello per tornare a Marrakech, sono milleduecento chilometri che in nove tappe fanno una media di centotrentatre chilometri al giorno, non ci siamo. Qualche ricerca e scopro un piccolo aeroporto per voli interni a Errachidia, vola a Casablanca, ok sono settecento chilometri di viaggio, ci sta alla grande!
E adesso? Come traccio? Dove passo? C’è tutta una parte di deserto in mezzo che pare di stare nel nulla, qui Google Maps senza strade e infrastrutture non traccia, ci saranno strade praticabili con le bici?!?
Unico modo che ho trovato è fare una ricerca da città a città, cercare fra Google Maps e forum vari delle tracce GPS di qualcuno che avesse fatto quelle tratte.
Si parte da Marrakech, si va verso il passo di Tik Tchka a duemiladuecentosessanta metri sull’Alto Altante e si scende verso Ourzazate per poi puntare Zagora, altra grande cittadina, tutto asfalto, da qui si prosegue verso Est in direzione Oumjrane, i primi quaranta chilometri sono su asfalto in mezzo al primo deserto che incontreremo poi si lascia la statale per prendere le piste, che ci condurranno a Oumjrane in venticinque chilometri circa.
Da qui si vedono delle tracce che vanno verso Sidi Ali, poi Ramlia, Ouzina e Kamlia, questo è proprio deserto, qui Google Maps non passa, però le piste ci sono! Una estenuante ricerca e trovo pezzetti di tracce GPS qua e la, fra qualche esploratore in mtb e qualche motociclista avventuroso, il gioco è fatto! Da prima di Kamlia a Merzouga, le dune di Erg Chebbi, per arrivare al piccolo aeroporto di Errachidia di nuovo tutto asfalto, con qualche variante su terra, volendo.
Dalla traccia alle tappe è stata una parte complessa che ha avuto diverse versioni, perché immaginare i dislivelli e lo stato delle strade/piste con possibilità, ovviamente, di errore, essendo a migliaia di chilometri di distanza, e non essendo mai stato in quel paese. Si arriva alla fine alla messa in opera delle tracce, e ci piace! Le prime, dure, con discreti dislivelli, per far si che le tracce sulle piste siano più corte, perché saranno sicuramente faticose e maledettamente lente!
Il periodo adatto al viaggio è, a detta di chi conosce il Marocco, a cavallo fra Febbraio e Marzo, quando la morsa del freddo e la probabile neve cede a temperature più miti alle alte quote dell’Alto Atlante mentre i deserti più a Sud del paese non sono ancora così estremi con temperature che schizzano verso l’alto in pieno giorno, insomma, una sorta di compromesso.
I materiali, complicati, per chi come me non ha mai affrontato un viaggio in bikepacking, ma qui mi affido a Matteo che ha esperienza dell’Olanda e di altri viaggi fatti negli anni. Io mi affido alla mia esperienza dei chilometri macinati in bici e nei trail, lo scialpinismo e le alte quote delle nostre Alpi, tutta esperienza in ambienti complicati che aiutano non poco a trovare una zona di comfort un po’ “fuori dal comune”, una buona conoscenza dei materiali, una fissa per le attrezzature light e, un briciolo di azzardo!
Quindi è deciso, si parte, Matteo da Londra e io da Malpensa, il randevouz sarà Marrakech, ho prenato l’unica notte di notte di tutto il viaggio, un mini appartamento a venticinque euro a soli cinque minuti dall’aereoprto, Matteo lo raggiungerà nel primissimo pomeriggio, io atterrerò in serata.
Il viaggio è teso, l’incognita a tratti prevale aumentando lo stress, le paranoie fanno spazio fra un sonno e l’altro sbirciando dall’oblò dell’aereo. Chissà se la bici reggerà, avrò i ricambi e gli attrezzi giusti? Le borse, ci entrerà quel che serve, l’abbigliamento basterà per affrontare il freddo dei duemila metri e il caldo che dovremo affrontare?
Poi mi ritrovo in aeroporto a litigare con una scatola da venti kg e mentre la trascino fuori, finalmente, abbraccio mio figlio, lui, visibilmente stanco ma con gli occhi che brillano, curiosi come come quando da bambino vedeva i regali sotto l’albero di Natale.
I primi dieci minuti sono caotici, è tardi, sono le ventuno e dal mattino siamo in ballo con la tensione dei prossimi dieci giorni di grandi incognite, non voglio montarmi bici e borse in aeroporto, prendo un taxi e facciamo questi cinque minuti su un Mercedes anni ’80 con la scatola che sporge dal baule, la trattativa sul prezzo stabilito si va a far fottere subito, e niente, qui si contratta e lo sorridono senza darti il resto, già capisco che non sarà semplice… Amen, siamo in camera.
Usciamo a far cena nelle viuzze qui vicino, sembra Beirut, tutto campato in aria, bancarelle ovunque ormai vuote e avvolte dal buio della notte, troviamo un piccolo botteghino dall’aspetto molto salubre e prendiamo quel che troviamo per mettere qualcosa sotto i denti, insomma, l’inizio lascia prevedere che sarà un’avventura nell’avventura, ora è tardi, facciamo rientro e prepariamo bici e borse che domani si parte!
Sveglia, oggi è il grande giorno, quello che da mesi sognavamo, vediamo quanto siamo stati bravi a organizzare tutto, questa è la prova del nove, l’emozione è tanta e l’ansia la segue a ruota, come padre avevo il peso della responsabilità come genitore, anche se Matteo è ormai un uomo, mi son chiesto più volte dove stavo portando mio figlio e che quello sarebbe stato il classico passo più lungo della gamba, ma questo è il nostro sogno, e ora noi siamo qui!
Saltiamo in sella, carichiamo la traccia e cerchiamo la nostra route per l’Alto Atlante, la nostra meta di oggi sarà Ait Ben Ammar a quota millecinquecento metri circa, prima del passo che ci porterà verso sud, a circa novanta chilometri da Marrakech. L’intento era quello di dare una sbirciata a Marrakech, ma appena immessi sulle strade cittadine ci rendiamo conto di quanto caotico e senza regole sia il suo traffico, non avendo ben chiaro la situazione delle strade e la precisione delle nostre tracce, preferiamo tirare dritto a malincuore e pedalare verso la nostra prima meta. Il nostro viaggio non è un viaggio da classici turisti, non era e non è stata nostra intenzione visitare città, la nostra è un’avventura in autonomia con l’intento di goderci i paesaggi, le montagne, i deserti e soprattutto i popoli che abitano i vari villaggi di questo immenso paese.
L’aria è frizzantina ma comunque accettabile, abbigliamento primaverile, smanicato antivento e manicotti, la velocità è di poco superiore ai venti chilometri orari, con bici di quasi venti kg non è male, il paesaggio fuori da Marrakech non è di certo entusiasmante e in lontananza si vede la catena dell’Alto Atlante, il traffico è sostenuto e le strade vanno da ben tenute, larghe, con corsia dedicata alle due ruote a strette, rotte, che ci passa una macchina… Pochi chilometri e ci rendiamo conto che guidano con disciplina nonostante le strade ed il traffico, non vanno mai forte e mai ti fanno pelo e contro pelo come avviene in Italia! Quando lo spazio non è sufficiente, si mettono dietro, non suonano e appena possono ti passano mantenendo le distanze.
La nostra prima sosta avviene in un autogrill, moderno, caffé e cookies, acqua in bottiglia per reintegrare le nostre riserve. Camelback da 1,5 litri nello zainetto da trail che abbiamo tenuto vuoto fino alle tappe del deserto o solo in particolari esigenze, due borracce da cinquecento ml sempre piene. L’acqua non manca mai, si trova sempre in bottiglia, eravamo comunque attrezzati con filtri e pastiglie per purificare l’acqua in caso di necessità, che però non abbiamo mai utilizzato.
Credo che questa sia la parte del viaggio più monotona, su questa statale trafficata con le montagne sempre in lontananza, forse un po’ la tensione iniziale che poi, pian, piano, ha lasciato spazio all’assaporare chilometro dopo chilometro gli ambienti che ci circondavano, oppure il fatto di non riuscire a realizzare quello che stavamo facendo e che li a poco avremmo vissuto.
Finalmente la strada inizia a salire, dolcemente, senza mai avere tratti veramente ripidi, l’ambiente si riempie di verde in contrasto con queste rocce rosse/brunastre, gli abitanti si spostano spesso con i muli a bordo strada con un’andatura lenta, si, qui è tutto più a rallentatore, i ritmi sono dettati dal tempo e dalla terra, questa sorta di “povertà”, rispetto ai nostri canoni occidentali, è una ricchezza per lo spirito e l’uomo che abita questi luoghi, cosa che avremmo scoperto da li a qualche giorno, il tempo di entrare nella parte del viaggiatore, quasi esploratori avventurieri, lontani il più possibile dal classico “turista”. Ma anche questo l’avremmo capito più avanti…
La strada sale e a tratti si trovano punti che arrivano quasi al 10%, una discreta salita se si pensa al peso delle bici cariche, nulla di estremo e sempre tutto fattibile, da qui la strada diventa a tratti un cantiere continuo, sterrata e polverosa in alcuni punti, ma sempre scorrevole e piacevole.
Troviamo verso l’ora di pranzo una “trattoria”, che si trovano spesso lungo le strade più trafficate, e questa che collega Marrakech a Ourzazate, la RN9, lo è!
Il solito tè che ci disseta e ristora e pane arabo servito con olio di oliva (un must), dopo sette ore di bici la fame non manca. Qui inizia a tirare un po’ d’aria e nonostante il sole, essendo a quasi millecinquecento metri, il fresco si fa sentire, manca poco a finire questa prima tappa e scoprire quanto i calcoli che abbiamo fatto sulla carta siano esatti o completamente errati!
Il fine tappa è prossimo, Taddart. Eccoci immersi in questo villaggio dopo quasi cento chilometri e oltre millecinquecento metri di dislivello positivo, fatto di case di fango e paglia, alcune strutture in cemento, ma comunque povere e spartane, il villaggio seppur piccolo è molto animato da botteghini microscopici, bar e taverne, le persone ci salutano e ci invitano, un classico quando vedono gli stranieri, però lo fanno con meno insistenza, con cordialità e senza diventare petulanti, chiediamo info per poter pernottare, perché anche se siamo autonomi con tende e sacchi a pelo, siamo sempre a oltre i millecinquecento e la notte si avvicina allo zero termico… Ci indicano un ostello, il prezzo è di settantacinque Diram a testa! Centocinquanta Diram in due??? Matteo si rifiuta categoricamente e cerchiamo oltre al villaggio un posto per piazzare le tende, eccolo, riparato, su un manto erboso a poca distanza dalla civiltà. Ok, si torna indietro per cenare, poi dopo si piazzeranno le tende.
Troviamo una taverna che ci prepara un tajin stratosferico, uno dei più buoni che mangeremo da li alla fine della nostra avventura, i sapori delle verdure sono amplificati dalla loro genuinità e dalle spezie che avvolgono tutto, il pollo e il resto senza eguali! A pancia piena iniziamo a ragionare e a conti fatti ci rendiamo conto che i centocinquanta Diram chiesti per dormire in un letto, compresa la doccia non sono altro che 15 euro! Affare fatto!
Doccia, sistemata a bici, bagagli e vestiario, si crolla di li a breve fra le braccia di Morfeo. Zzzzzz Zzzzzz
Sveglia, oggi ci aspetta la seconda tappa, ben riposati, ripuliti e rifocillati! Iniziano le operazioni per sistemare tutto dentro le sacche e preparare quello che servirà per questa nuova tappa, usciamo a cercare un posto per far colazione, un freddo becco, 5 gradi e l’aria tipica montana, quella frizzante, quindi ben coperti senza lasciarsi sorprendere. Il cielo è terso e questo lascia ben sperare per una pedalata all’insegna del bel tempo. La colazione in un locale…. che… insomma… Qui l’igiene è un po’ in secondo, terzo, forse quarto piano, meglio non entrare nei dettagli, ci si adatta e arrangia con quello che si trova, in un viaggio del genere non si può fare gli schizzinosi. Omelette berbera, pane arabo fresco, olio di oliva e il solito tè. Qui il classico cappuccio e brioche non esiste, i dolci non sono contemplati, le uova la fanno da padrone nella loro cucina, colazione, pranzo e cena, siamo sopravvissuti!
Lasciamo l’ostello e ricominciamo da dove avevamo lasciato, anche oggi tutto asfalto, dobbiamo raggiunge il passo per poi scendere e raggiungere Ourzazate, il nostro prossimo check point sarà circa quindici chilometri oltre la cittadina, non sappiamo di preciso dove, ma verosimilmente in un luogo per poterci accampare. L’aria è davvero pungente, per fortuna partiamo in salita, morbida e pedalabile, che ci la possibilità di scaldarci e patire meno le prime ore del mattino, il Col du Tichka a duemiladuecentosessanta metri.
Ci godiamo il panorama e a tratti i primi raggi caldi del sole, siamo immersi su questi monti aridi le cui vette ricoperte di neve sicuramente si avvicinano ai tremila metri, il paesaggio è molto selvaggio, di tanto in tanto qualche casa di fango incastonata sui pendii, difficili da scorgere, segnate da sentieri e qualche gregge di capre, qui la vita non deve essere per nulla semplice è il nostro unico pensiero. L’unico segno di civiltà è questo nastro di asfalto ben curato che a tornanti sale, il silenzio è rotto di tanto in tanto dal transito di qualche veicolo, spesso carichi all’inverosimile con pile di bagagli sulla capotte.
Scorgiamo il colle, il GPS segna quota duemiladuecento metri e quindi dovremmo quasi esserci. Matteo mi precede di qualche centinaio di metri, lui con la Gravel e gomme da trentotto decisamente scorrevoli ha qualche vantaggio in più rispetto alle mie tassellate da 2,2 pollici, ha anche vent’anni in meno! Arrivo al colle e vedo la sua bici appoggiata a queste due “torrette” dove al loro centro un grosso cartello indica il colle, un piccolo piazzale contornato da una decina di botteghe inondate di souvenir, la cantilena si fa subito sentire, con insistenza i commercianti ci invitano a visitare le loro botteghe e a bere il tè, ospiti, ospiti, con sempre più insistenza. Matteo che è decisamente più socievole di me gli da corda, io dopo dieci minuti capisco la solfa e infastidito da tanta insistenza riprendo la bici e minaccio di lasciar li Matteo! Il riecheggiare di quelle voci insistenti mi rende insofferente, quindi si riparte per trovare un luogo più tranquillo, da qui si scende!
Se non per qualche piccolo e breve strappo, i prossimi cento chilometri saranno decisamente in discesa!
La velocità a tratti è sostenuta, la preoccupazione di perdere i bagagli a ogni scossone fa tirare di tanto in tanto le leve dei freni, fortunatamente ha retto tutto bene fino alla fine del nostro viaggio, Lungo questa infinita e dolce discesa abbiamo attraversato decine di villaggi, locali a cavallo di muli e asini, fiumane di bambini e ragazzini dal ritorno dalle scuole, qui se ne vedono tantissimi, sicuramente la popolazione rispetto al nostro paese è relativamente giovane, è un aspetto che ci ha colpito molto, spesso quando ci vedono passare allungano le mani per darci il cinque e le persone più anziane salutano con un cordiale “bonjour”. Tiriamo fino ad Agouim, una piccolissima cittadina un filo più moderna dei villaggi finora attraversati, scorgiamo alcuni bar/trattorie dove poter pranzare con il tipico tajin, abbiamo circa quaranta chilometri con mille d+ nelle gambe e qualcosa di sostanzioso è un toccasana, divoriamo l’abbondante pietanza, pane, acqua, coca cola (qui gli alcolici non ci sono), la coca cola in questo viaggio è andata per la maggiore, visto il suo alto contenuto di zuccheri e il potere sgorgante utile a digerire i piatti tutt’altro che leggeri!
Via, nuovamente sui nostri cavalli di ferro, la strada è ancora molta e la discesa diventerà presto un falsopiano, fortunatamente a favore, la vallata nella quale è adagiato il manto stradale si apre sempre di più dandoci l’idea di pedalare all’interno di un canyon, i villaggi sono sempre più rudi e i cantieri a tratti sterrati ci fanno mangiare un sacco di polvere, di buon passo procediamo per raggiungere il nostro obbiettivo, con l’intento di non arrivare troppo tardi, avere il tempo di allestire il campo e goderci qualche ora di relax.
Ovviamente non mancano le soste per ammirare i panorami e la natura, villaggi e scorci caratteristici per scattare qualche foto.
Siamo alle porte di Ourzazate e alla nostra sinistra i Cla Studios, set cinematografico de “Le colline hanno gli occhi”, “American Snipers”, “Mission Impossible” ma anche “Star Wars”,“Lawerence d’Arabia”, “Il Gladiatore” e la serie “Game of Thrones”! Vi lascio immaginare gli scenari che ci circondano, qui iniziamo ad avere una vaga idea di questi immensi spazi, dei deserti rocciosi che ci attenderanno nelle prossime tappe. A cinquanta metri dal suo ingresso un moderno autogrill, ci fermiamo assetati e all’ingresso troviamo tre ciclo viaggiatori che arrivano da più parti del mondo, l’uomo bianco, qui, appare poco socievole e simpatico, due battute e intuiamo una certa freddezza. Ci ristoriamo, facciamo scorta di liquidi e proseguiamo per attraversare la moderna Ourzazate, che ovviamente salteremo a piè pari per dirigerci ad una quindicina di chilometri oltre per accamparci per la notte. Usciti dalla city a oltre quattro chilometri passiamo il piccolo centro Tabounte, il paesaggio da chilometri ormai è invariato, qualche oasi qua e la, per il resto è tutto molto brullo, in lontananza, alle nostre spalle, si stagliano le montagne dell’Alto Atlante che abbiamo lasciato. La nostra meta giornaliera è vicina, ma dove? I chilometri all’incirca ci sono, ci fermiamo vicino ad una struttura, in realtà mancherebbero ancora dieci chilometri per finire la tappa, ma qua per oltre trenta chilometri non ci sarà più nulla, quindi decidiamo di fermarci dopo centodiciotto chilometri e millecento metri di dislivello.
Ci portiamo all’ingresso di questa bellissima struttura immersa nel nulla, un Camping, così recita la scritta sul cartello, dentro è sontuosa, tende berbere, divani, tavoli, e quasi nessuno, se non una manciata di turisti. Chiediamo per posizionare le tende e cenare, veniamo subito accontentati, il gestore ci accompagna in una di quelle tende dandoci la possibilità di fare una doccia. Montiamo le tende per la prima volta, in un luogo comunque sicuro e protetto, anche se qui si ha l’impressione che tutto e tutti stiano al loro posto e che i pericoli siano rimasti nell’altro continente… Piazzate le tende e fatta una rigenerante doccia ci godiamo il tramonto, i suoi colori e il calore della giornata, che nel suo pieno ha sfiorato i venticinque gradi, cede lentamente alla frescura della notte, l’escursione termica è indicativamente di una ventina di gradi fra il giorno e la notte.
Ceniamo con un altro taijn, la scelta non è molta, la bontà di questa pietanza e la fame lascia in secondo piano la monotonia di questo piatto, è buio, ci godiamo le prime stelle e si va a dormire, domani sarà un altro giorno di fatica!
Notte in tenda! Dormito… Quasi zero! Colazione abbondante e si torna in sella, dopo due giorni sui pedali in salita ad attraversare le Atlas questa sarà sulla carta una tappa in discesa, tranne una salita iniziale e dieci chilometri da recuperare dalla traccia precedente, prossimo check, Taghzout nella Valle di Draa. L’ambiente, come dicevo, è quello desertico, senza vegetazione, molto roccioso, dopo aver centrato le prime due tappe siamo avvolte da una certa sicurezza del lavoro svolto a casa su mappe e tracce, che ci lascia pedalare rilassati, siamo a contatto diretto con l’ambiente che ci circonda, siamo entrati nella parte e ci lasciamo travolgere dalle emozioni in un paesaggio dalla bellezza selvaggia senza eguali. Per chilometri il nulla, venticinque chilometri di leggerissima salita costante, nessun centro abitato se non qualche micro villaggio e case sparse, sempre di fango e paglia, muli carichi ai bordi della strada con andatura lenta, lentissima, come se il tempo qui fosse fermo da migliaia di anni, e così è effettivamente, poco è cambiato, popolo pacato e sereno, affascinante da osservare, a tratti da invidiare.
La strada torna ad appiattirsi, il caldo si fa sentire in fretta, mai soffocante, aria sempre molto sottile, talmente secca da rompere le labbra e far seccare naso e bocca, da diventare quasi una tortura, in lontananza una cittadina ci invita a sgranocchiare qualcosa, ma qualcosa non torna, davanti a noi, oltre il centro abitato, un’unica strada (qui non ce ne sono molte, le strade principali asfaltate sono ben poche) che sale verso le montagne che si ergono di fronte a noi! Ci fermiamo e controlliamo mappa e GPS, la traccia è giusta e la direzione è proprio quella ma senza spiegazione manca il profilo altimetrico, quella che doveva essere una tappa prevalentemente in discesa, a parte la parte iniziale, diventa… Un incognita!
Quasi presi dal panico, decidiamo di affrontare quella salita e fermarci eventualmente dopo per rifocillarci. Affrontiamo la pendenza su di un paio di tornanti e fortunatamente dopo duecento metri di dislivello siamo al passo, una vista magnifica alle nostre spalle sulla cittadina appena lasciata, una distesa infinita di color giallo senape e questa “bassa” catena montuosa che si staglia a perdita d’occhio come una lunga cicatrice, siamo a millesettecento metri sul livello del mare. Ora la strada sembra rimanere in quota e si sviluppa su lunghi tornati in calanchi naturali avvicendati da brevi rettilinei, gli occhi vengono catturati da canyon meravigliosi, incredibili, dai colori brunastri, dalle striature orizzontali che l’acqua ha scavato in migliaia di anni, non possiamo fare a meno di fermarci di tanto, in tanto, ad ammirare tanta bellezza, le emozioni si fanno forti e gli occhi lucidi, siamo immersi cuore e mente.
La strada inizia a scendere, allacciamo le cinture e ci buttiamo a tutta, un’ultima sosta su uno spiazzo sulla dorsale di questa catena che scende verso la valle di Draa, da qui vediamo il lungo serpentone bitumato che, per chilometri, scende verso valle.
Siamo sempre sulla RN9, quella che parte da Marrakech, la strada dopo una lunghissima discesa inizia ad appiattirsi ed entrare in questa immensa valle, a breve siamo nella cittadina di Agdz dove ormai è ora di pranzo, altro tajin!
La copertura del cellulare è pressoché completa, potrei dire al 90% su tutto il viaggio, avevo acquistato a Marrakech una scheda della Orange per dieci Diram, con tre ricariche ce la siamo cavata, credo che in totale avrò speso circa sui venticinque euro, considerato le continue connessioni e lo Hotspot fatto a Matteo per connettersi di tanto in tanto, anche nel deserto più remoto si vedono questi grossi antennoni dei ripetitori, invasivi e certamente non belli da vedere, ma danno una certa sicurezza ed l’unico modo per questi villaggi sperduti per rimanere connessi fra loro ed il resto del mondo.
Si riparte, patiamo il caldo, il termometro supera i trenta gradi e per noi è il primo caldo, ci si disidrata parecchio con l’aria così secca e un venticello che asciuga tutto e secca continuamente le labbra che ora bruciano!
In sella e via, iniziano le oasi, palmeti a perdita d’occhio, siamo nel centro di questa immensa valle dove si fa quasi fatica a capire la sua reale larghezza, in lontananza le montagne che fanno da contenimento si stagliano come un cordone, credo che nel punto in cui ci troviamo sia larga circa dieci chilometri, e siamo solo all’inizio… Il verde è in contrasto con il resto dell’ambiente, la voglia di sperdersi dentro a questa foresta è quasi irresistibile, ma il nostro obbiettivo non ci lascia tempo per altri pensieri. La stanchezza del terzo giorno si fa sentire, e sicuramente il caldo ha fatto la sua parte, siamo un po’ sul teso, oltretutto questa tappa non prevede un punto di appoggio, anche se abbiamo la speranza di trovare un camping per montare le tende, quindi si pedala a testa bassa.
Decidiamo di fermarci a metà pomeriggio per idratarci un po’ e metterci all’ombra di questa calura, troviamo un camping immerso fra le palme, noccioline, tè, caffé e datteri che sembrano prugne talmente grandi, succosi, zuccherini, un esplosione di bontà in bocca!
E via di nuovo in sella, seguiamo sempre questa striscia verde, fra villaggi avvolti nel passato, costruzioni arabe, mecche, bambini e ragazzi, un villaggio dietro l’altro, e intanto maciniamo chilometri! Manca poco al check, anche se ci rendiamo conto di essere un po’ in mezzo al nulla, qui i locali non parlano nemmeno francese, solo arabo, i villaggi non hanno botteghe e… Matteo buca! Ci fermiamo di fronte ad una mecca per sostituire la camera d’aria, subito veniamo raggiunti da due ragazzini che ci danno una mano, poi arrivano due anziani a curiosare, intenti alla riparazione chiediamo info per mangiare e per dormire, siamo esausti! Pare non ci sia nulla fino a Zagora, ma mancano ancora trenta chilometri, significherebbe un’altra ora e mezza di sella… Non se ne parla, ci accampiamo all’addiaccio!
Torniamo sulla strada a cercare un punto per piazzare le tende, un villaggio, decidiamo di passarlo e lontano da occhi indiscreti cercare un punto buono, all’uscita di questo piccolo villaggio dimenticato da Dio, Taghzout, una piccolissima bottega, una manna dal cielo! Non c’è molto, ma almeno l’acqua, per cucinare e per lavarsi almeno un minimo, quattro uova e due pani arabi fatti in casa che il proprietario ci dona come gesto di accoglienza.
Proseguiamo con le nostre borsette della spesa, da li a una manciata di chilometri, troviamo, nel letto del fiume in secca dopo aver percorso centoventisei chilometri e altri millecentocinquanta metri di dislivello, un punto perfetto per piazzare le tende, cucinare una crema di asparagi della Knorr, un tozzo di pane, barretta come dolce e una caffè! Si va a nanna… per dire.
E’ l’alba e fa freddo, usciamo dalle tende con le frontali, la luce è ancora minima, ma inutile star li a prendere freddo, belli vestiti iniziamo la routine per smontare il campo, mentre Matteo mette in padella le quattro uova e una tazza calda di caffé, ottima colazione accompagnata dall’ultimo tozzo di pane avanzato dalla cena precedente, ottima ricarica per tornare a pedalare! Up, up!
Saranno gli ultimi chilometri nell’immensa valle di Draa in direzione Zagora, poi ci dirigeremo a Est verso i deserti, la nostra destinazione oggi sarà Oumjrane nel mezzo del deserto marocchino e gli ultimi venticinque chilometri saranno finalmente su piste! Questa sarà l’ultima tappa “semplice” prevalentemente in asfalto, sebbene le tracce progettate siano quasi perfette, qui ci sarà la grande incognita del fondo stradale, che, da quando siamo partiti ci lascia un po’ di perplessità e fa salire una sorta di tensione mista ad ansia. Bene, nemmeno cinque chilometri dalla partenza e Matteo buca nuovamente… Ci mettiamo subito e velocemente all’opera per ripartire dopo la sostituzione della camera, siamo all’ombra di una bastionata di rocce che fa da sponda alla valle, l’aria è fredda, dall’altra parte della valle, palme e palme, in questo punto la valle potrebbe essere larga anche un ventina di chilometri, o forse più.
Poco più di quindici chilometri dalla partenza e siamo a Tissergate, quattro case e alcuni villaggi sparsi ai bordi dell’oasi, una struttura ricettiva dall’aria moderna sarà la nostra seconda colazione e ci darà modo di recuperare acqua e viveri per portarci il più in la possibile nella tappa, Zagora, come tutti i grandi centri abitati la saltiamo a piè pari, più viviamo a contatto con la solitudine di questi immensi spazi e meno sopportiamo situazioni caotiche, schiamazzi e l’insistenza degli abitanti cittadini. Superiamo così Zagora e svoltiamo verso Est seguendo la road N12, in direzione Tazzarine, mantenendo una piccola catena montuosa sulla nostra destra. Il caldo inizia a farsi sentire sin da subito, la strada è poco trafficata e più ci spingiamo verso est più i mezzi che la percorrono sono sempre meno, a lunghissimi tratti siamo soli e di fronte a noi spesso non si vede la fine della strada, a sinistra si apre un immenso spazio desertico con qualche sporadica struttura in fango e alcune tende berbere, qualche dromedario di tanto in tanto attraversa lentamente la strada. Siamo rapiti e affascinati da questi immensi spazi, senza vegetazione, senza confini.
Seppure consapevoli di essere in mezzo al nulla e lontani dalla civiltà, un senso di pace ci pervade, temevo che psicologicamente avesse potuto mettere un certo senso di angoscia e invece, sorprendentemente ci ha avvolto un gran senso di libertà. Una salita, breve, ci porta a una sorta di altopiano, o forse più semplicemente ci fa uscire dalla depressione che creava il fondovalle, scolliniamo, quasi dal nulla, una famiglia berbera con qualche agnello attraversa la strada per dirigersi verso la loro casa, sono lontani trenta chilometri dalla città più vicina.
Iniziamo ad aver fame, sono passate parecchie ore dall’ultima sosta e da almeno due ore non abbiamo visto strutture, botteghe o chioschi, solo deserto e qualche montagna rocciosa, quando quasi come un miraggio un “classico” camping con tende berbere, di un cotone pesantissimo color marrone scuro, il proprietario molto ospitale, con il piccolo figlioletto Adam, ci accolgono e rifocillano con una buonissima omelette berbera, il solito e dissetante tè all’ombra dal sole cocente, qui si toccheranno quasi i 35 gradi, ottimo ristoro per ricaricare le energie. Siamo al quarto giorno, seppur un po stanchi per aver passato una notte un po’ agitata, siamo ormai belli rodati e a nostro completo agio sulle nostre bici, le nostre medie sono sempre, seppur di poco, sopra i venti chilometri orari, il che ci permette di viaggiare bene e chiudere le tappe nel pomeriggio in abbondante vantaggio rispetto alle stime, siamo a cavallo!
La strada dopo pochi chilometri ritorna leggermente a salire e mentre, di fronte a noi la strada, tende a sparire fra le montagne per svoltare verso Nord, si stacca la nostra pista, ci siamo! Siamo eccitati e incuriositi, sono quattro giorni che aspettiamo di pedalare a diretto contatto con questa bellissima terra e ora siamo qui. I nostri occhi sono sempre stati rapiti sin dal primo momento, curiosi e sgranati come quelli dei bambini alla scoperta della novità, ora i nostri occhi sono lucidi, emozionati, siamo pervasi da questa sensazione avvolgente che ti fa chiedere se sia tutto vero, che finalmente sei dove avresti sempre voluto essere, quei luoghi così remoti che per anni hai solo immaginato e nella più fervida immaginazione mai lontanamente avresti potuto respirare, odorare ed assaporare quel deserto.
La pista è battuta, non ci si può sbagliare essendo molto ben visibile, molto dura e sconnessa ma relativamente scorrevole, pedaliamo per circa una mezz’ora, quando siamo nel nulla, immersi nell’ambiente che ci circonda, Matteo propone un caffè all’ombra delle rare piante che ogni tanto si incontrano, è il suo “sogno”, ci accampiamo brevemente e lui prepara un caffè. Un esile soffio di vento alza in lontananza la polvere che si deposita sulla pista, tutto è maledettamente selvaggio, surreale e affascinante!
Da qui, in meno di un’ora, siamo a Tissemoumine e i bimbi del villaggio ci corrono in contro, il primo villaggio dopo oltre sessanta chilometri nel grande vuoto, villaggio che precede Oumjarane, check della nostra quarta tappa dopo aver pedalato per altri centodieci chilometri e poco meno di cinquecento metri di dislivello. Troviamo alle porte della piccola cittadina un bar ben curato dove veniamo accolti con curiosità, probabilmente sono più abituati a turisti in 4×4 e motociclisti che viaggiatori in bici. Ci saranno di grande aiuto e supporto per accompagnarci al Camping che si trova a circa quattro chilometri fuori dal centro abitato, un camping piazzato in mezzo al deserto, nel bel mezzo nel nulla dove la vista trova ben pochi confini. La struttura ha il minimo indispensabile, dire “spartana” non rende l’idea, il proprietario, giovane e molto affabile, ci ristora con il consueto tè sotto alla classica tenda, poi ci accompagna nella nostra stanza, una notte su un materasso, anche se appoggiato a terra, ci serve per recuperare un po’ del sonno perduto delle notti precedenti in tenda. Doccia, quasi calda, una sciacquata ai vestiti e riempiamo le pance con un delizioso cous cous. Il tramonto è suggestivo e la pace che avvolge questo luogo pervade spirito e mente, ma ormai è buio e domani ci aspetta una tappa di deserto, dura, fatta di sole piste, sarà un’incognita.
Una notte di relax su un materasso, belli riposati e pronti per la colazione.
Mi vesto ed esco a godermi il sorgere del sole, seduto in mezzo al deserto, io e il silenzio più assoluto in questo spazio sconfinato dove il mio sguardo si perde all’orizzonte.
Il proprietario, gentilissimo, ci ha fatto una “mappa” su un foglio dandoci indicazioni precise sulle piste da seguire, da qui fino ai prossimi due check. La prima parte coincide con la nostra, la tappa seguente invece è completamente diversa, la nostra passa sule montagne mentre la loro prosegue a fondo valle nel letto del fiume in secca, ma ci darà la possibilità di passare da Ramlia, un remoto villaggio a sud a meno di venti chilometri dal confine dell’Algeria, e passare da Sidi Ali dove un amico gestisce un camping.
Ci ritroviamo così a pedalare su questo terreno duro e roccioso, qui nemmeno l’ombra di una pianta, fortunatamente la velatura del cielo prolunga la frescura mattutina e poco dopo un’ora di bici ci fermiamo in questa landa desolata a farci un caffè con il fornellino, un rito.
Si prosegue e da qui qualche tratto duro, in mezzo a “banchi” di sabbia finissima e quasi impalpabile ci obbliga a scendere e spingere la bici, a tratti siamo costretti a pedalare fuori dalla piste, resa sabbiosa dal passare dei mezzi, lentamente e con fatica si prosegue fino ad incontrare le prime dune di sabbia che subito ci rapiscono, come due bambini non possiamo fare a meno di abbandonare a terra i nostri mezzi e farci una passeggiata su quei crinali che ti inghiottono fino alla caviglia, la sensazione è surreale, sembra di camminare su una superficie quasi liquida dal color oro, intorno a noi il nulla.
A breve un camping, li in mezzo, ottimo per un piccolo ristoro e si riparte quasi immediatamente, affondo con le ruote nella sabbia, si spinge e si spinge ancora, lenti e imperterriti proseguiamo verso Sidi Ali, ad attenderci, inaspettatamente, l’amico del proprietario del camping di Oumjrane, sono le dodici in punto e lui ci dice che si aspettavano arrivassimo attorno alle sedici, fast, fast, very fast! Mica stiamo a pettinar le cozze!!!
Ci dice di seguirlo, lui con un motorino legato con il fil di ferro fra sassi e sabbia, noi sui pedali e a tratti a spinta, entriamo nell’ennesima vallata, e mentre pedalo duro mi volto e vedo Matteo in parallelo a me su un’altra pista, una foto, un quadro, lui in mezzo al deserto e dietro le montagne che formano questo canyon, foto da copertina! Finalmente siamo al camping, fa caldo, il sole si è fatto spazio fra le nuvole ormai sparite, ci sono circa 35°, una sciacquata, via le scarpe e la sabbia che c’è dentro, si pranza. Meglio non guardare oltre la finestra che da sulla cucina, meglio non guardare, l’igiene qui è molto approssimativa, ma se hai fame e non sei schizzinoso, tutto a posto!
Ok, non ci possiamo permettere di soffermarci troppo, mancano meno di venticinque chilometri al prossimo check, ma qui ci dicono che c’è un bel tratto di “fish, fish” così chiamano questi banchi misti sabbia/polvere dove anche con i mezzi motorizzati è facile insabbiarsi, insomma, abbiamo capito, ci sarà da farsi un bel tombino! I prossimi quindici chilometri saranno durissimi, parecchi quelli spinti a piedi, poi la pista gira, sempre su un tratto duro e sabbioso si spinge risalendo il crinale sinistro del canyon, scolliniamo ed entriamo così in un’altro immenso canyon, l’ennesimo fiume in secca dal fondo piattissimo e durissimo, quasi cemento, di un giallo paglierino con sfumature rosee e banchi verde smeraldo di vegetazione come fossero prati sparsi qua e la, una vista incredibile che ci lascia a bocca aperta, doppiamo attraversare il canyon per arrivare sull’altra sponda dove si trova il nostro Hotel, il Riad Nomad, roba da mille e una notte, piccola concessione da classici turisti. Il canyon è largo otto chilometri e mentre ci avviciniamo all’Hotel, decine, forse centinaia di dromedari, elegantemente in fila, questa sarà una di quelle immagini che rimarranno impresse per tutta la vita nelle nostre menti.
Quando siamo a due chilometri, Matteo buca… Accelera e l’ultimo lo percorre spingendo la bici, ci siamo, ultimo sforzo e finalmente possiamo rilassarci dopo sessantaquattro chilometri e 150 metri di dislivello, doccia, cena, riparazione camere d’aria e nanna in una bellissima e grande stanza su un ottimo materasso, lusso!
Ci aspetta l’ultima tappa sulle piste, altri sessantacinque chilometri dove già sappiamo che ci sarà da spingere tantissimo, senza traccia GPS ma solo seguendo delle indicazioni disegnate a mano e pressoché approssimative, su un pezzo di carta, in realtà non sappiamo nemmeno se i settantacinque chilometri calcolati sulla nostra route saranno tali, avremo anche l’incognita del pernotto.
La primissima parte è bella battuta, cerchiamo di orientarci con la mappa, cercando la direzione di Ramlia e le svariate piste che si incrociano e si staccano continuamente, fra un mix di polvere, terra come cemento e canali scavati dall’acqua, solchi che in certi punti ci costringono a scendere dalla bici e fare del vero xc con bici da venti kg!
Qui a tratti ci sono piste più segnate e battute, altri più incasinati con trenta centimetri di polvere non sempre pedalabile, fa subito caldo e ci rendiamo conto presto che sarà tutt’altro che semplice, un’avventura nell’avventura, spesso perdiamo la traccia. Prendiamo come riferimento la vetta di una piccola montagna, quasi uno sperone che sembra segnare la fine del nostro canyon così da mantenere una rotta ed evitare di seguire a zig, zag inutilmente. E’ davvero dura, anche da spingere a piedi, le ruote affondano sotto al peso dei bagagli, non ci siamo mai fatti prendere dallo sconforto, avremmo voluto in qualche modo che quella tappa non finisse mai, anche se davanti a noi ci sarebbero stati ancora tre giorni sui pedali e le dune di Erg Chebbi da vedere, questa tappa segnava un po’ la fine di quel viaggio ignoto, il gusto dell’avventura, la consapevolezza che noi esseri minuscoli stavamo affrontando, nel nostro piccolo, la “fine” di questa sfida.
Abbiamo percorso dodici chilometri in due ore e mezzo! Fra sabbia e polvere, in mezzo a cespugli, rami che sembrano fatti di ferro, una strada tortuosa nel letto del fiume e non abbiamo visto anima viva, quando finalmente, quasi sotto a quello sperone che stavamo seguendo, scorgiamo le case di Ramlia. Arriviamo al villaggio, case di fango e paglia, strade sterrate, qui l’asfalto e le comodità non esistono, un villaggio indietro nel tempo, ma comunque frequentato da rider in moto, fuoristrada, quel turismo dall’avventura motorizzata che porta i bianchi a scorrazzare con i loro mezzi, onestamente, stona in questo contesto, stride ma è così, per fortuna in un certo qual senso anche per quelle due attività che ci sono nel villaggio. Bar, tè e arachidi, poi un ragazzino sveglio che parla quattro lingue si mette a chiacchierare con Matteo e ci accompagna, a pochi metri da li, nella panetteria del villaggio, da fuori credo che la struttura fosse quattro metri per quattro, dentro un’unica stanzetta con qualche secchio di biscotti home made, i primi che troviamo, e una ragazza giovane, la titolare, che a terra su un panno sta facendo il pane. Acquistiamo un po’ di biscotti e lei ci omaggia di un pane arabo appena sfornato, ringraziamo e proseguiamo il nostro viaggio. Uscendo dal villaggio un’unica pista in un altro immenso canyon che si apre, a destra le bastionate della “riva” e sulla sinistra si scorgono le montagne e alla loro base delle dune, tanti sono i bambini che giocano qui alle porte del villaggio, ci corrono in contro uno dopo l’altro chiedendo caramelle, soldi o qualcosa da mangiare, alcuni del nostri biscotti appena acquistati finiscono sotto i loro i denti, più qualche moneta avanzata per comprarne altri.
Una prima parte molto rocciosa e sconnessa per poi diventare un manto compatto, compattisimo come il cemento, dai colori chiari e tenui, giallognoli tendenti al rosa, da come l’impressione di stare nel letto di un lago salato, una visione che ha quasi del surreale. Fortunatamente da qui in poi i tratti da spingere a piedi saranno veramente pochissimi, però l’ambiente è davvero duro e severo. Qui le scorte d’acqua non devono mancare. Siamo a poco più di trenta chilometri percorsi e oltre a una serie di montagnette rocciose un cartello che indica un camping recita “Le porte del Sahara”, ci siamo, il raggiungimento del sogno di una vita, l’emozione è forte, ma il caldo pure… Cinque minuti dopo siamo in questo camping, le tende di cotone bruno scuro tendenti al nero sono in contrasto con l’oro delle dune, entriamo a metterci al riparo dal sole e dalla calura, un omelette ci rimetterà in forze per proseguire.
Da qui, seppur sempre sui pedali i chilometri si susseguono e diventano sempre più tosti, siamo nel nulla, avremmo incontrato un paio ci camion e forse, quattro o cinque persone, il prossimo villaggio che vediamo sulla carta è Taouz, che in teoria dovrebbe essere quello che per noi era il nostro check point della tappa, le due strade si sarebbero unite più o meno in questo punto. La stanchezza e il caldo per un attimo ci fanno cedere, per un momento abbiamo la tentazione di piazzare le tende qui in mezzo al nulla, poi rinsaviamo e decidiamo di arrivare almeno fino al villaggio. La strada è massacrante e non so quanta polvere abbiamo mangiato ma anche in quanta affascinante e selvaggia bellezza abbiamo pedalato.
Arriviamo al villaggio dopo sessantacinque chilometri che il sole sta tramontando, sono oltre dieci ore che siamo in bici e siamo ormai bolliti, il villaggio sembra più un avamposto della striscia di Gaza, una base militare e molti, parecchi mezzi per lavori pesanti, tanti operai, proviamo a chiedere per cenare e dormire ma qui non è posto. Non ci rimane che proseguire al prossimo villaggio a venti chilometri, Khamlia, o almeno provarci. Fortunatamente la strada è asfaltata, molto liscia e scorrevole, a testa bassa e nonostante la stanchezza spingiamo sempre oltre i venticinque orari per arrivare prima che faccia buio, solo una piccola sosta per mettere la luce frontale e accendere quella rossa posteriore giusto per non farci investire. In meno di un’ora siamo finalmente a Khamlia, esausti, sfiniti dopo ben ottantasei chilometri di cui settanta su piste durissime di deserti, ben venti in più di quello che era sulla nostra carta. Un indigeno del villaggio ci viene in “soccorso”, una volta domandato cena e pernotto, ci ospita a casa sua. Ci invita ad entrare per capire se è di nostro gradimento, ci cede la camera delle sue tre mogli e ci chiede di pazientare per la cena e la preparazione della camera. Accettiamo più che volentieri, l‘ospitalità di questo meraviglioso popolo non l’ho mai trovata in nessun altro luogo. Doccia, ottimo cous cous e via a crollare nel sacco a pelo su un materasso.
Mi riguardo l’alba, il sole sorge fra le dune, l’aria è fredda, il cielo limpido mentre ci apprestiamo a ri-allestire le bici prima della colazione, omelette e ogni ben di Dio sotto ad una bellissima tenda berbera, al suo interno diversi strumenti musicali. Il proprietario, prima di andarcene, ci invita a vedere un esibizione del suo gruppo musicale, un gruppo locale molto conosciuto che a ritmo scandito ci trascina alle antiche radici, suoni ancestrali di questa antica terra, madre Africa.
Si riparte, con molta calma, oggi tappa relax e siamo in vantaggio di venti chilometri, vogliamo goderci le dune, pranzare con calma a Merzouga e pedalare in scioltezza. Qualche foto e video sulle dune, bellissime montagne di sabbia dorata dove i loro profili vanno in contrasto con il blu profondo di un cielo terso, ci godiamo un po’ tutto questo spettacolo, lo assaporiamo fino in fondo.
Brevemente siamo a Merzouga, cittadina molto commerciale e turistica, con bancarelle di ogni tipo, bar e chioschi per pranzare non mancano. Visitiamo, prima di proseguire le grandi dune che si innalzano davanti a noi, sono alte qualche centinaio di metri, imponenti e bellissime, surreali.
Su asfalto proseguiamo in direzione di Errachidia costeggiando il deserto sulla statale asfaltata R702, siamo sempre in vantaggio di qualche decina ci chilometri, ma va bene così, se anticipiamo di qualche ora l’arrivo ad Errachidia nei prossimi giorni avremo tempo per imballare le bici, pensiero che ora inizia a metterci ansia, quindi manteniamo il vantaggio e ci fermeremo dove capita. Dopo quarantadue chilometri percorsi troviamo una sorta di Resort a Dar Kaoua, a prima vista sembra un posto da sogno, una bellissima struttura dalla classica architettura araba, sdraio, piscina, fontane e pozzi, palme e giardini apparentemente ben curati, una bella sala ristorante e un bar di tutto rispetto, tentano il colpaccio e sparano ben millequattrocento Diram per una camera doppia, doccia e cena!?!? Propongo duecento a testa, cena e dormiamo in tenda in una qualsiasi aiuola, anche nel parcheggio! Ci accordiamo per duecentotrenta doccia compresa, e così sarà!
Abbiamo ancora due giorni davanti a noi, circa un centinaio di chilometri e poco più di seicento metri di dislivello positivo, così decidiamo di lasciarne solo trenta per l’ultima tappa, siamo comunque stanchi e gestire lo stress e l’incognita dell’imballaggio delle bici richiede tempo e lucidità. Quindi per la penultima tappa pedaleremo per circa una settantina di chilometri, su asfalto, ci concederemo una deviazione su pista visibile sulla mappa, giusto per dare ancora un po’ di “sapore” all’avventura. Arriviamo ad un piccolo villaggio, anche qui i bimbi ci corrono in contro e ci seguono in bici, riesco a riprendere con la go-pro un bimbo in bici che affianca Matteo e gli da un “cinque”, immagine immortalata sul digitale ma soprattutto nei nostri occhi, nemmeno il tempo di uscire dal villaggio e Matteo buca per l’ennesima volta, le spine nei deserti rocciosi sono piccolissime, ma ci sono. Con calma smontiamo la ruota, mentre veniamo raggiunti da un ragazzo del villaggio che ci darà una mano, ad ognuno il suo compito, io riparo con le pezze la camera appena tolta, per sicurezza. Risaliamo sui nostri mezzi e ci godiamo questi ultimi chilometri su queste piste immersi nella selvaggia natura, dure e scorrevoli con qualche single track qua e la chi ci fa divertire.
Pranziamo nella cittadina di Erfoud, abbiamo lasciato da poco la R702 per seguire, sempre in direzione Errachidia, la N13, la strada riprende a salire molto dolcemente mentre si infila in un canyon dal fondo valle ricco di palmeti di un verde smeraldo, la valle di Ziz. Lasciamo il fondo valle, la strada sale a tratti sul versante destro e abbiamo superato ormai i settanta chilometri, il camping si trova sul fondo in mezzo alle palme e per scendere scorgiamo un tratto in single track, corto e tecnico fra roccie e sfasciume, piccola impresa adrenalinica con bici quasi incontrollabili, un po’ di sale alla giornata! Tenda piazzata, per l’ultima volta, doccia e ottima cena, ci godiamo un po’ le stelle prima di chiudere la zip della tenda e riposare.
Sono le prime luci dell’alba e fa un freddo pazzesco, siamo sul fondo della valle di Ziz e il sole ci metterà parecchio a far arrivare i suoi caldi raggi, ci muoviamo e iniziamo a far su i bagagli, anche a partir presto è sempre molto complicato, qui prima delle otto, otto e trenta non si vede mai nessuno, e senza colazione non si parte! Oggi sarà una “passeggiata” sono solo trenta i chilometri che ci dividono dalla fine di questa incredibile avventura, domani mattina avremo il nostro bimotore ad attenderci per far scalo a Casablanca e rientrare in Italia.
Un po’ di silenziosa tristezza ci avvolge e ripartiamo decisamente abbacchiati e sottotono, di colpo avvertiamo tutta la stanchezza di questa dura ed entusiasmante avventura, pedaliamo in silenzio godendoci questi ultimi chilometri su asfalto, poco prima dell’abitato di Meski ci fermiamo a fare l’ultima colazione con il classico tè, con molta calma e senza fretta, siamo a metà mattinata e a circa un’ora da Errachidia, la mente ripercorre come fotogrammi sparsi i vari momenti appena vissuti ma ancora si fatica a realizzare quello che stiamo per concludere.
Siamo davanti al piccolo e moderno aeroporto di Moulay Ali Cherif di Errachidia, da qui torniamo verso il centro abitato per cercare una stanza in albergo che troveremo poco distante.
Check in effettuato e prenotato un taxi per le sei del mattino, il volo per Casablanca parte alle otto, il tempo per imbarcare le bici e la classica routine.
Facciamo una doccia e pranziamo in un locale moderno dallo stile occidentale, dopo di che si andrà alla ricerca di qualche imballo per le bici, sarà una mezza odissea, sicuramente la parte più stressante e frustrante di tutto il viaggio, nemmeno a pagare profumatamente quattro fogli di cartone marci, qui agli abitanti li abbiamo trovati piuttosto ostici e la ricerca di materiale snervante. Troviamo piccole e medie scatole riutilizzate, due rotoli di nastro da imballaggio in un negozietto di articoli elettrici e rientriamo in albergo a fare un collage e i salti mortali per riuscire a costruire degli imballi, un’altra avventura nell’avventura.
Ci riposiamo un paio di ore, stanchi e strabolliti, prima di andare a cena a gustarci l’ultimo tajine prima di andare a dormire.
Il resto, solo un lungo, lunghissimo viaggio di rientro fra scali e attese passati a riguardare le foto scattate cercando di mettere insieme questi dieci giorni pieni e compressi di emozioni, colori e nuove sensazioni ancora da metabolizzare.
La sensazione che ci ha accompagnato i primi giorni è stata quella di aver compiuto un’avventura, si pazzesca ma nel contempo molto surreale, surreale principalmente per il fatto di aver avuto la fortuna di poter pedalare a stretto, strettissimo contatto, con questa meravigliosa terra, la fortuna e possibilità di aver conosciuto un popolo fantastico nella sua dignità, ospitalità e umiltà, un popolo “povero” per i nostri (contorti) canoni ma estremamente ricco, ricco di spirito che vive la vita appieno con l’ambiente che lo circonda, capace di godere lo scandire lento del tempo che madre natura gli offre. Mai mi sono sentito così povero, soprattutto d’animo, nel vedere quanto ci siamo abituati a vivere di superfluo, spesso mi sono sentito a disagio per questo.
Incredibile è stata la sensazione di aver costruito quasi alla perfezione, tracce, altimetrie e chilometri, punti di appoggio, a migliaia di chilometri di distanza in un paese mai visitato.
Incredibile avventura, fatta con mio figlio, un sogno divenuto realtà, felice di aver condiviso con lui questa strabiliante avventura e averci messo a “nudo” da uomini adulti senza troppi fronzoli, capaci di un bellissimo spirito di adattamento e di sacrificio, un ricordo indelebile che ci accompagnerà per tutta la vita.
Buona vita a te Matteo…
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I video delle 9 tappe: https://www.youtube.com/channel/UCfKcKtgsYDRVyyM7wOArsmA?view_as=subscriber